Comunicare la lesbofobia. Riflessioni condivise a partire dalle campagne di comunicazione sociale

Il 21 febbraio ci siamo incontrate per un appuntamento di autoformazione sulla rappresentazione della lesbofobia nelle campagne di comunicazione sociale. Per iniziare a ragionare su questo tema il gruppo delle facilitatrici ha proposto come punto di partenza per il confronto una selezione di campagne trovate in rete, tutte mirate a sensibilizzare sul tema della omolesbobitransfobia in occasione della Giornata internazionale contro l’omofobia, la lebofobia, la bifobia e la transfobia del 17 maggio.

L’invisibilità della lesbofobia

Una premessa da cui siamo partite è che, soprattutto nelle campagne meno recenti (ma non solo), la parola lesbofobia non viene mai usata. Questo è stato il primo dato significativo su cui ragionare, perché racconta di una invisibilizzazione della violenza specifica che subiamo in quanto lesbiche anche all’interno di gruppi, associazioni e movimenti GBTQIA. Uno degli obiettivi della nostra rete – lo sapevamo ma lo abbiamo ribadito – è proprio fare in modo che in tutti i contesti in cui si parla di omofobia, bifobia e transfobia ci sia anche la lesbofobia. Perché queste violenze hanno dei tratti in comune ma anche delle peculiarità e non nominarle significa cancellarle.

Non in nostro nome

Scorrendo le campagne abbiamo trovato alcune cose che proprio non ci andavano giù, parole e immagini che non solo non ci rappresentano, ma che vorremmo non venissero più usate. Una delle retoriche che più ci hanno infastidite è quella omonazionalista, nel nostro caso lesbonazionalista, in cui l’uso del termine “civiltà”, abbinato all’immagine della bandiera italiana e al richiamo a una presunta unità nazionale, esprime un approccio nazionalista e coloniale.
Un’altra retorica che abbiamo percepito come disturbante è quella della “non scelta”: Uno slogan come “Essere lesbiche non è una scelta, essere omofobi sì” inscrive il lesbismo in un ordine naturale, che dovrebbe giustificare la nostra esistenza per il semplice fatto di non averla scelta. Molte di noi rivendicano invece la scelta come dimensione fondamentale della soggettività lesbica, che comprende l’orientamento sessuale ma anche l’identitifcazione di genere e il posizionamento politico.

Un altro aspetto che abbiamo notato e denunciato in tante è la centralità della coppia nella rappresentazione visuale. E’ possibile pensare il lesbismo al di fuori della logica dell’amore romantico e della coppia come unica dimensione in cui si presume che il lesbismo possa esprimersi? Un filone che spesso accomuna le campagne, soprattutto quando sono rivolte a un pubblico generalista, è la vittimizzazione, l’uso di toni drammatici e la presenza di un meccanismo che, con l’obiettivo di generare empatia, ci depotenzia e si insinua anche nelle forme con cui noi stesse ci autorappresentiamo.

Campagna 17 maggio 2018 di Arcigay – Fonte

Una campagna come questa, ad esempio, pur uscendo dalla logica della coppia e tentando di rappresentare la comunità e di denunciare la violenza, trasmette uno schiacciamento totalizzante sulla condizione di vittima. Inoltre lo slogan “Se è omofoba, non è famiglia” sembra cancellare tutta la riflessione femminista sulla stretta connessione tra istituzione familiare e violenza. Forse andrebbe ribaltato dicendo che proprio nelle famiglie risiede la violenza contro le donne e violenza lesboomobitransfobica. Inoltre il tono accusatorio e giudicante provoca una reazione di rifiuto anche da parte delle stesse famiglie che vorrebbe sensibilizzare.

La stessa logica di vittimizzazione è stata riscontrata in questa campagna dell’associazione francese Lesbeton, che ha suscitato pareri contrastanti fra le partecipanti all’incontro. C’è chi l’ha trovata cupa, vittimistica, depotenziante, chi invece ha apprezzato la natura partecipativa del meccanismo con cui è stata costruita (le frasi sono state raccolte all’interno della comunità lesbica di diverse città francesi), il fatto che mostrasse la “base dell’iceberg” della violenza, quindi le molestie quotidiane, e l’uso di un simbolo di lotta, come il pugno, che vorrebbe evocare una riappropriazione in senso positivo della rabbia che si genera dalla lettura delle frasi d’odio che vengono riportate (e che ognuna di noi ha spesso vissuto in prima persona).
Abbiamo valutato più positivamente queste ultime due campagne che riportiamo. In “Rompiamo gli stereotipi”(realizzata da Arc en Ciel, una associazione di Toulouse) la ragazza che morde lo stereotipo ci ha trasmesso un senso di liberazione ed empoderamento. Raffigura una lesbica che sì ha subito e subisce violenza quotidiana, ma che reagisce in modo attivo, e che ricerca con lo sguardo la complicità di chi legge il messaggio nella lotta alla lesbofobia.
 
Infine, l’immagine usata per questo messaggio, anche grazie alla scelta illustrativa e cromatica e al soggetto collettivo e variegato, trasmette un senso positivo di orgoglio, probabilmente rivolto a una comunicazione “interna” alla stessa comunità LGBTQ+.

 

Come comunicare la lesbofobia

L’ultimo passaggio del nostro lavoro insieme su questo tema è stato quello di scrivere collettivamente quali secondo noi sono i presupposti di una buona comunicazione contro la lesbofobia, stendendo una sorta di Linea guida. In primo luogo ci siamo dette che, per comunicare bene, è importante avere in mente a chi si vuole comunicare e tenere sempre presente la centralità della scelta delle immagini, dei colori e del tono generale della comunicazione. Se vogliamo comunicare a soggetti differenti, sarà importante studiare messaggi diversi e personalizzati per ognuno dei “target”, trovando il modo di raggiungere un pubblico ampio, ma sempre tenendo presente che la comunità deve potersi riconoscere in ogni messaggio. Il tono di voce non deve essere, a nostro avviso, aggressivo e colpevolizzante, ma piuttosto usare la rabbia in modo ironico e propositivo, spiazzante e non vittimistico. Trovare il modo di conciliare identificazione ed empatia con un’ottica empoterante, assertiva, che rovesci la logica di ciò che subiamo e racconti la nostra presa di parola. Le parole lesbica e lesbofobia devono ovviamente essere centrali e le rappresentazioni visive devono raccontare, fuori da ogni stereotipo, la pluralità e diversità della comunità lesbica e la visibilizzazione delle lesbiche trans, anziane, razzializzate, disabili, grasse e di tutte le intersezioni di oppressione, ma soprattuto di orgoglio e di lotta, che possono intrecciarsi. Last but not least, è fondamentale evitare pietismo, vittimizzazione, nazionalismo, mercificazione, colonialismo e dominio della coppia e dell’amore romantico.

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