Le parole per dirla. La lesbofobia (che non c’è) nelle narrazioni mediatiche

Il 14 marzo 2021 ci siamo incontrate per il nostro terzo incontro di autoformazione, dedicato alle narrazioni mediatiche della lesbofobia. Il primo dato che abbiamo riscontrato è che la parola lesbofobia non viene mai utilizzata nelle cronache giornalistiche: uno dei nostri obiettivi è proprio quello di promuovere l’uso del termine nel linguaggio giornalistico. 

La lesbofobia passa anche dalle parole

Abbiamo dedicato la prima parte dell’incontro all’analisi di un articolo su un caso che ci sta particolarmente a cuore, quello di Elisa Pomarelli. Tra i tanti articoli che hanno trattato in modo estremamente tossico il racconto di questo femminicidio/lesbicidio (ricordiamo con rabbia ad esempio il titolo sul “Gigante buono” de Il Giornale), ne abbiamo scelto uno pubblicato dal quotidiano La Repubblica, perché ci premeva evidenziare come questo tipo di narrazioni non riguardino solo testate con posizionamenti politici chiaramente lesbofobi, ma anche giornali dalla linea editoriale progressista.

L’articolo è intitolato Un’ossessione per Elisa. Sebastiani confessa l’omicidio e piange ed è corredato da un’immagine fotografica che raffigura Elisa Pomarelli insieme al suo assassino, che suggerisce in modo immediato l’idea della “coppia”. Iniziamo dicendo che questo tipo di pratica – utilizzare immagini “private” su cui la donna uccisa non può più esprimere consenso – va assolutamente evitata. Lo dice il Manifesto di Venezia, lo dicono le attiviste di Non Una di Meno nel Piano femminista Antiviolenza, lo ripetono da anni tutte le attiviste che si occupano di narrazioni della violenza. Già dalla scelta del titolo – la parte dell’articolo più visibile, quella che viene letto per prima, a volte l’unica ad essere letta, quella che “inquadra” concettualmente e orienta la narrazione successiva – notiamo qual è la cornice discorsiva utilizzata. La prima parola è “ossessione”. Se cerchiamo sul dizionario, la definizione di ossessione è “Sintomo presente in alcune malattie psichiche, che si manifesta sotto forma di idee, parole, immagini persistenti nella mente del paziente al di fuori della sua volontà, ingenerando sensazione di angoscia impossibilità di azioni equilibrate”. Cosa ci dice l’uso di questa parola? Che la vicenda è da inquadrare nei termini di un disturbo psichico. La patologizzazione è una strategia discorsiva spesso utilizzata nei casi di femminicidio, che da un lato toglie la responsabilità all’autore della violenza, dall’altro riproduce l’associazione mentale abilista tra disturbo psichico e violenza. Il secondo punto che spicca nel titolo è la diversa nominazione usata per l’assassino e per la ragazza uccisa. Lui è Sebastiani, lei è Elisa. Anche questa pratica è molto diffusa nel giornalismo, e risponde a una logica generale di infantilizzazione delle donne. Il terzo punto da notare nel titolo è l’uso del termine “omicidio“, nonostante la parola femminicidio sia ormai entrata nell’uso comune delle redazioni giornalistiche e sia fondamentale per inquadrare il singolo evento dentro un fenomeno più ampio e strutturale. L’ultima informazione che ci arriva dal titolo è il pianto di Sebastiani: veniamo portatə a immergerci nel suo stato d’animo, nel suo dolore, di cui il pianto è la manifestazione.

Proseguendo nella lettura, il sommario racconta del “crollo di Sebastiani” all’arrivo in caserma (ancora il suo stato emotivo) e dell'”amica uccisa”, con una forma verbale passiva che invisibilizza l’agente. Dopo l’articolo prosegue, in forma romanzata, aprendo con un virgolettato dell’autore del femminicidio/lesbicidio, che descrive l’atto compiuto come “una stupidaggine“. Quindi da un lato di dà alla posizione dell’autore una visibilità introduttiva nel racconto, dall’altro si legittima l’uso di un termine che minimizza fortemente la gravità dell’atto: una stupidaggine è una cosa leggera, una bravata, qualcosa di sbagliato ma che in fondo si può perdonare.

In tutto il percorso di lettura il femminicida viene descritto “in lacrime”, con “manone da tornitore” i cui movimenti sopperiscono alle “parole che non vengono. Rimangono strette in gola senza uscire e lasciano spazio ai singhiozzi”, “un uomo semplice”, “frustrato” per il confine posto da Elisa Pomarelli, “un po’ selvaggio, capace di arrampicarsi sugli alberi e di correre a piedi nudi nella ghiaia. Una persona di animo semplice che forse non ha saputo elaborare un legame”. Cosa ci restituisce questo tipo di narrazione? Oltre a rinforzare sempre di più l’empatia con l’autore del femminicidio, queste parole evocano il topos del “buon selvaggio”, una rappresentazione che deresponsabilizza l’uomo che ha agito, ponendolo in un gradino inferiore rispetto al genere maschile e all’umano in generale, in un mix di colonialismo, classismo e abilismo. Lui non è un uomo normale, è un uomo dagli istinti animali, un’eccezione. Gli uomini “evoluti” sono così salvi da qualsiasi responsabilità collettiva. Tranne appunto i “selvaggi”, che, secondo il dizionario Treccani, sono ” popolazioni, con forma di civiltà ancora primitiva, molto arretrata e inferiore rispetto ad altre considerate progredite e superiori”.

Di Elisa Pomarelli cosa si dice? “Ventottenne consulente finanziaria che lavorava col padre e che spesso usciva con Sebastiani”. Di lei non si dice quindi quasi niente, se non l’età, il lavoro, e la sua collocazione rispetto a due uomini: lavorava col padre, spesso usciva con Sebastiani. Una frase che tra l’altro contiene una traccia implicita di colpevolizzazione, rispetto al tema dell’illusione di lui che viene sviluppato nell’articolo.

Raptus, amore malato, gioco pericoloso

E del femminicidio/lesbicidio invece cosa ci viene raccontato? Subito nel primo paragrafo intanto il caso si dà già per risolto: “gli inquirenti ritengono sia uscito d’impeto senza una premeditazione“. Cercando “impeto” sul dizionario si trova “forza che investe in modo violento e indiscriminato”. Un sinonimo del famigerato “raptus”. Una forza che viene da fuori, qualcosa che non è controllabile. Di cui, ancora una volta, Sebastiani non può avere responsabilità. Poi ci viene detto che è un “dramma” (ancora dal dizionario: “Componimento teatrale moderno, che sviluppa essenzialmente una vicenda dolorosa, quasi sempre nascente da un conflitto o contrasto che giunge a un massimo di tensione)”. E ancora “un equivoco e un gioco alla fine pericoloso“, un “amore malato“, una “storia appesa a una incomprensione di fondo”, un “amore primitivo e morboso a far perdere la testa all’uomo incapace di assorbire l’ennesimo rifiuto”, un “tragico pomeriggio”, una “storia maledetta“. Si tratta di una carrellata di interpretazioni che inseriscono l’episodio nella lunga tradizione della tragedia (una disgrazia, una sventura) e dell’amore romantico (violenza come eccesso di amore, amore malato), arrivando addirittura a descriverlo come un gioco. Sono ormai decenni che come femministe proviamo a smontare l’idea della violenza come parte o possibilità dell’amore, ma questa visione continua purtroppo a regnare nell’immaginario collettivo. Insistere a descrivere i due soggetti protagonisti di questa vicenda come “coppia“, nonostante il lesbismo di Elisa Pomarelli e il suo netto rifiuto dell’uomo che, proprio per questo, l’ha uccisa, e addirittura usare un termine “gioco“, che implica la partecipazione consapevole delle persone partecipanti, sono forme di rivittimizzazione molto violente.

Un’unica volta viene usato il termine “femminicidio”, accostato però alla specificazione “per motivi passionali” che ha l’effetto ossimorico di togliere al concetto la sua valenza di descrizione della violenza come dato strutturale e non solo come agito di un singolo uomo. E facendo riferimento a quei “motivi passionali” che fino a pochi anni fa erano delle attenuanti riconosciute dal nostro sistema penale.

L’articolo si chiude, in un andamento circolare, esattamente nello stesso modo in cui era iniziato, con il pianto di Sebastiani: “Una storia maledetta conclusa con il pianto tardivo di un uomo sbigottito persino da se stesso”. Sebastiani è “sbigottito”, ossia “Profondamente turbato e sorpreso, sconcertato, allibito”, come se quella azione lo avesse colto di sorpresa, come se non ne avesse l’intenzionalità. Incolpevole di qualcosa che non ha potuto decidere.

Sintetizzando, le tracce di narrazione tossica che abbiamo riscontrato sono l’empatizzazione con il femminicida/lesbicida, la sua deresponsabilizzazione e la responsabilizzazione chi chi è stata uccisa, l’interpretazione della violenza come amore romantico.

Risse e stereotipi

Dopo l’analisi di questo articolo, ci siamo esercitate tutte insieme ad analizzarne un altro, molto diverso per contenuto, stile e contesto. Si trattava di un articolo di cronaca su una testata locale, dal titolo “Sono lesbica e orgogliosa”. E scoppia una violenta rissa. Il sommario descrive così l’accaduto “Grida, pugni e calci, il vetro di un’auto finisce in frantumi, violenta rissa tra due gruppi di ragazzi. Tutto sarebbe avvenuto a causa dell’orientamento sessuale di una ragazza del posto”. Già da questi prime elementi abbiamo tutte capito che l’interpretazione data all’accaduto riportava come causa il lesbismo e la visibilità della ragazza, e non la lesbofobia di chi l’ha aggredita. Inoltre i termini rissa e lite rimandano a una dinamica tra pari, persone ugualmente coinvolte nell’agire violenza, e non ad un’aggressione in cui c’è chi aggredisce e chi viene aggredita. Nel racconto successivo, che si sofferta su una inutile e giudicante descrizione estetica, la ragazza viene sessualizzata, infantilizzata, delegittimata, descritta come una ragazzina instabile, inquieta, con la maschera da dura. Una lista lunghissima di stereotipi e allusioni. Mentre le azioni rimangono sempre generiche, senza differenziazione, salvo attribuire la violenza a un generico degrado, associato al consumo di alcool e alla visione classista di un “quartiere difficile”. Anche in questo articolo viene operata una deresponsabilizzazione degli autori della violenza. In questo articolo abbiamo riscontrato un esempio evidente di invisibilizzazione di una aggressione lesbofoba e di negazione della violenza, e un “trattamento” giornalistico che trasmette una visione stereotipata della ragazza che ha subito l’aggressione, delegittimando la sua rabbia e riconducendola, con l’immagine di una carezza da parte di una vicina, alla essenza di femminilità che anche lei, sotto la sua maschera da dura, in fondo non può, come donna, non avere.

Come comunicare la violenza lesbofobica?

Nell’ultima parte della formazione ci siamo concentrate sulla stesura collettiva di linee guida per una corretta comunicazione della violenza lesbofobica. Partendo innanzitutto dai già citati Manifesto di Venezia e Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere di Non Una di Meno. Condividiamo tutte le indicazioni positive e negative contenute in questi documenti, che sono la base per un cambiamento nel modo di raccontare la violenza di genere sui media. A queste linee guida abbiamo aggiunto, nel nostro percorso di riflessione specifica sulla lesbofobia, alcuni spunti:

  • Non invisibilizzare l’orientamento sessuale quando è rilevante nella motivazione “di genere” della violenza
  • Nominare la parola lesbofobia
  • Non riprodurre stereotipi sulle lesbiche
  • Nominare le relazioni lesbiche senza invisibilizzarle (le amiche)
  • Chiarire chi esercita la violenza e chi ne è bersaglio
  • Non utilizzare solo il nome, anche il cognome della donna/lesbica
  • Non empatizzare con chi ha agito la violenza, non invisibilizzarlo
  • Non colpevolizzare chi subisce la violenza
  • Non associare la violenza lesbofobica a disturbi psichiatrici o appartenenza di classe, esplicitarne la dimensione strutturale
  • Non infantilizzare chi subisce violenza
  • Non romanzare la vicenda
  • Non “romanticizzare” l’aggressore
  • Chiedere alle persone coinvolte come vogliono essere definite e come interpretano quanto accaduto
  • Non associare la responsabilità alla visibilità della lesbica: non è la visibilità a causare o giustificare la violenza, è la lesbofobia
  • Interpellare le associazioni sul territorio che lavorano su questi temi (lesbiche, lgbt+, ecc.) nonché i centri antiviolenza, prima e più del vicino di casa o dello spettatore casuale: parlare con persone che hanno conoscenza della violenza.
Condividi: